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Articolo 31/01/2010
La spaventosa tragedia è ormai stata presa in carico dal mondo: Haiti era da anni uno spazio vuoto nel complesso sistema delle relazioni internazionali, abbandonato ad un destino di violenza, di miseria, di degrado. C'era, è vero, l'aiuto internazionale, ma sappiamo che troppo spesso questo aiuto si disperde in rivoli e paludi che non sono capaci di generare sviluppo. Ora tutto è crollato sotto le macerie del terremoto, portando con sé un numero ancora imprecisato di vittime.
L'intervento delle Nazioni Unite, l'impegno degli Stati Uniti e del Canada, quello - sia pure un po' disarticolato - dell'Unione europea, costituisce però un segnale e, nello stesso tempo, un orizzonte più concreto perché dicono la consapevolezza che la catastrofe di Haiti rappresenta per tutti contemporaneamente un monito ed un impegno: non solo ricostruire, come di fronte a tante altre tragedie e come abbiamo visto pochi mesi fa in Abruzzo. Si tratta di rifare le fondamenta, ripensare la struttura di un paese: la capitale quasi rasa al suolo di un'isola poverissima e derelitta chiede una ricostruzione che sia prima di tutto e soprattutto un ripensamento.
I superstiti chiedono un nuovo orizzonte, gli aiuti internazionali - necessari e doverosi - si devono, però, orientare ad offrire un futuro, a disegnare (forse per la prima volta) un paese poi capace di andare avanti, capace di libertà e di sviluppo.
Una delle cose che hanno maggiormente colpito l'opinione pubblica internazionale ed i soccorritori sono state le preghiere, corali e spontanee, quando giustamente ci si poteva aspettare una domanda: perché è capitato tutto questo ad un popolo già provato, colpito, abbandonato?
Le risposte si possono dare proprio venendo sì incontro all'emergenza immediata, ma soprattutto guardando ad un piano condiviso di ricostruzione. E qui scatta la domanda: la comunità internazionale potrà concentrarsi su un progetto unitario in cui ci sia posto per tutti e non si dimentichi nessuno?
Un mese fa, il giorno di Santo Stefano, abbiamo ricordato i cinque anni dal terribile "tsunami" che nel 2004 ha seminato la distruzione su una vastissima area dell'Oceano Indiano. Ci sono state diverse testimonianze di ricostruzioni riuscite, rese possibili dall'aiuto internazionale. Ora la sfida riguarda un'area più ristretta, ma è anche più radicale, una sfida molto difficile anche se possibile.
Si tratta, in primo luogo, di salvare le vite ed offrire un primo sostegno ai sopravvissuti a partire dagli orfani, dai più piccoli. Ma l'emergenza vera è quella strutturale. Di qui la responsabilità dell'opinione pubblica mondiale che deve essere generosa, offrire aiuto, ma deve anche vigilare, aiutare la comunità internazionale ad avere un ruolo che consenta una ripresa, una speranza e non soltanto nel breve, ma anche nel medio periodo.
E forse, pur nell'immensità della catastrofe, c'è qualche elemento per essere fiduciosi.
mons. Gilberto Donnini